Stefano della Bella. Le Incisioni. La Poetica del Minuscolo
a cura di Bertrand Marret
Museo della Città via Tonini 1, 28 aprile – 15 luglio 2018
Quale la distanza che separa l’artista dal suo soggetto, quale la distanza che definisce il passaggio dalla misura concreta alla dimensione pittorica, dalla percezione alla rappresentazione? Il critico d’arte James Lord, autore di una celebre biografia su Giacometti, ci racconta di come Alberto eseguì una natura morta nello studio di suo padre quando aveva circa diciotto anni: “Incominciò a disegnare delle pere disposte su un tavolo. All’inizio le fece della grandezza che avevano come se l’apparenza realista dipendesse dalla rappresentazione delle proporzioni presenti. Mentre avanzava, non smetteva di cancellare, fino a che le pere diventano minuscole. Suo padre che lo osservava lavorare giudicò che era senza dubbio esagerato: Disegna le pere come sono, così come le vedi, disse al figlio. Alberto ricominciò e mezz’ora dopo si ritrovò con le stesse pere minuscole” In realtà Giacometti le disegnava tali e quali erano cioè come le vedeva e non come le sapeva. Era la distanza che separava le pere dal suo sguardo a determinare le misure, riducendo le dimensioni conosciute a quelle che lui vedeva realmente. Se ho citato questo anedotto è perché ci introduce, a passi da gigante, al nostro argomento: la problematica del minuscolo che esiste solo in relazione al gigantismo. Il macrocosmo e il microcosmo sono correlativi. Già nel pensiero greco i pigmei, favoloso popolo di nani alti un cubito, furono immaginati in opposizione all’idea dei giganti: li troviamo nel ciclo di Eracle quando assaltano l’eroe per vendicare la morte del gigante Anteo, oppure nella saga dei Mirmidoni, discendenti da formiche. La letteratura è piena di esempi simili, ci basti evocare Micromégas : nel racconto filosofico di Voltaire, ogni essere, sia esso siriano, saturnino o terrestre, è visto nell’universo in continua tensione fra il “micro” e il “mega”. Nel pensiero filosofico di Pascal, l’uomo è situato fra due abissi, l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo. Nei viaggi di Gulliver a Lilliput, gli uomini che vi abitano non sono più alti di sei pollici; il Pollicino della favola, fra gnomi e folletti, ci trasporta attraverso immagini che passano con la più disinvolta facilità dal piccolo al grande e dal grande al piccolo.
La cosa che colpisce di più nei lavori di Stefano Della Bella è il loro formato sovente piccolissimo. Le sue immagini, a volte, non superano la grandezza di una carta da visita o di un “grande” francobollo. Per la minuzia dei tratti e le dimensioni ridotte, guardare le sue incisioni esige un vero e proprio avvicinamento fisico, o meglio l’uso di una lente di ingrandimento. Del resto esiste una fenomenologia dell’ “uomo con la lente” che esprime una legge psicologica importante: quella di immettersi in un punto sensibile dell’oggettività nel momento in cui siamo pronti a ricevere il dettaglio nascosto e a dominarlo. Il minuscolo allora si spiega nelle dimensioni di un universo. E necessario “entrare” nel minuscolo, “inoltrarsi” per poter vedere le immagini ingrandirsi e moltiplicarsi. Il piccolo formato costringe chi guarda a una osservazione molto attenta, “l’agudeza” è già una lente di ingrandimento, e necessita lo stesso sguardo di un entomologo o di colui che ammira l’oriente di una perla; favorisce la concentrazione e aiuta a interiorizzare. Non è sufficiente basarsi sulla dialettica platonica del grande e del piccolo per conoscere le virtù dinamiche del minuscolo, occorre oltrepassare la logica, per vivere ciò che nel piccolo c’è di grande. Accade come se stessimo esaminando le immagini al rallentatore, soffermandoci su ciascuna il tempo necessario per arrivare a una condensazione dei valori, senza limite. Le composizioni di Della Bella svelano ad un occhio attento, capace di analisi, il loro equilibrio e la loro geometria rigorosa; questo stesso occhio attento, ha il piacere di sorprendere l’artista nel momento intimo e segreto del processo creativo, quasi con indiscrezione: ci si immagina Stefano, col pollice sulla sua ciappola, mentre fissa paziente e meticoloso le cose più minute e lontane. E facile comprendere a questo punto le implicazioni e l’impegno di proporre una mostra di incisioni di formato in gran parte piccolissimo; l’invito a guardare questi lavori è, in qualche modo, anche una richiesta di disponibilità a entrare in una dimensione del tutto singolare.
In ogni tempo gli artisti sono stati tentati dall’esperienza di nuove tecniche e non solo per andare al di là delle regole convenzionali ma perché un nuovo procedimento dava luogo a un nuovo stile che si personalizzava. Nella sua ricerca di profondità dello spazio, per esempio, Donatello nella serie dei Miracoli a Padova, ottiene con la tecnica dello “stiacciato” spazi profondissimi. I bassorilievi, con questo accorgimento tecnico, mostrano una sporgenza minima e depressa che si attenua gradualmente dai primi agli ultimi piani, dando l’illusione della profondità. Nei quattro Miracoli il tumultuoso accalcarsi della folla è ritmato dalla scansione geometrica delle architetture che diventano le vere protagoniste delle rappresentazioni. Tra i primi a studiare con straordinaria modernità i fenomeni della percezione visiva, Leonardo da Vinci fece uso di una certa gradazione della luce e del colore che risultava della posizione degli oggetti visti nello spazio: più gli oggetti rappresentati sono lontani più la loro luminosità diminuisce e il loro colore degrada nel blu. Questo modo di rendere la profondità attraverso la tonalità azzurrina, all’orizzonte, fu definito da Leonardo “prospettiva aerea”.
Per quanto concerne il mondo dell’incisione il colore è per definizione escluso, dunque i mezzi di espressione della prospettiva aerea si riducono a due elementi: il tratto e il degradare dei valori. La forza o la leggerezza della traccia, le dimensioni del tratteggio lungo il primo piano, ridotto in lontananza a dei piccoli tratti o dei punti, traducono la distanza. Per ottenere una profondità di campo il taglio delle scene di Della Bella ripete quasi sempre lo stesso modulo: un personaggio in primo piano occupa il foglio in verticale, più vigoroso di tono o nell’ombra, situato a volte su una piccola altura, che produce un allontanamento delle altre figure nei piani successivi o crea un forte stacco dal paesaggio affollato che si stende in lontananza. Questa maestria tecnica permette all’artista di introdurre nelle lastre una moltitudine di comparse che, senza distrarci del resto, appaiono distintamente sul fondo, in modo che ognuna di esse conserva la sua esistenza pur partecipando tutte dall’insieme. La caratteristica dell’arte di Della Bella è tutta nel gioco delle proporzioni e nell’incessante variazione di scala all’interno della stessa lastra. Il passaggio all’infinitamente piccolo non si compie gradualmente, ma a balzi o con brusche alternanze.
Il minuscolo nell’arte occidentale appare già nelle piccole vedute architettoniche e paesaggistiche di Pompei e dell’Esquilino, nei codici miniati del medioevo, nei Livres d’heures che continuano a stupirci per la varietà delle soluzioni spaziali e nelle predelle delle pale d’altare minuziosamente narrative. L’arte del infinitamente piccolo fu praticato per tradizione dai fiamminghi, in particolare dai continuatori delle “kermesses” bruegeliane, così come dal tedesco Adam Elsheimer che non ebbe uguali nel moltiplicare i personaggi su una scena ridotta e nella messa a fuoco dei dettagli più infinitesimali. Al di là della storia del minuscolo, le ragioni dell’attrazione di Della Bella per l’infinitamente piccolo sono più di una: egli iniziò come apprendista nella bottega dell’orefice Orazio Vanni e qui imparò l’uso della “punta” e i lavori di cesellatura; questa pratica lo portò in breve tempo all’abitudine di operare da molto vicino e supponiamo munito di occhiali o lenti come il “microscopio composto” di Galileo: “un occhialino per vedere da vicino le cose minime” che deste grande interesse in tutti gli ambienti artistici e scientifici. Incontra in seguito Remigio Cantagallina celebre per la sua “tecnica meravigliosa del disegno a penna in grande e in piccolo”, dice Félibien, che gli fa conoscere le incisioni del ingegnoso Jacques Callot, subito preso a modello. Inoltre a Firenze, ebbe modo di ammirare nel famoso Studiolo di Francesco I dei Medici a Palazzo Vecchio, ideato dal Vasari, i dipinti dell’Allori e di Giovanni Stradanno, iscritti nelle superfici ristrette di medaglioni ovali. Della Bella l’avrà bene in mente quando realizzerà la serie dei tondi dei Paesaggi e rovine di Roma nel 1646.
Senza dubbio la predilezione per la descrizione della moltitudine e il “lavoro in piccolo” fu per Della Bella un artificio di stile, atteggiamento, abbiamo visto, non raro in un’epoca in cui le scoperte scientifiche erano così stupefacenti da sorpassare le fantasie di scrittori e pittori, che ricorrevano al magico e all’incredibile. La sua fu quindi anche una civetteria “ post-manierista”. Inoltre all’epoca, per i collezionisti di stampe e di piccoli quadri da gabinetto d’amatore, diventava vera fruizione guardare a lungo delle immagini, esaminare uno per volta i personaggi, scoprire e far notare agli amici un piccolo dettaglio che a prima vista era loro sfuggito. La moltitudine, la varietà, la precisione delle figure, l’abilità della mano, tutto quello che chiamiamo virtuosismo, erano allora considerate qualità supreme. Gli artisti si prestavano a soddisfare questa curiosità del loro pubblico, e stupire al di là dell’aspettativa. Anche le sculture minuscole, nell’estetica manierista, suscitarono le meraviglie del tempo. Vasari così evocava il virtuosismo di Properzia de’Rossi : “ E perciò ch’era di capriccioso e destrissimo ingegno, si mise ad intagliare noccioli di pesche, i quali si bene e con tanta pazienza lavorò, che fu cosa singolare e meravigliosa il vederli….certamente era un miracolo veder in su un nocciolo così piccolo tutta la Passione di Cristo, fatta con bellissimo intaglio con una infinità di persone, oltre i crucifissori e gli Apostoli.” Sappiamo bene, grazie alle collezioni di curiosità, di quanto favore godettero le prugne e le ciliegie di pietra scolpite, i cammei in calcedonio di squisita fattura o i netsuke giapponesi : una sorta di bottoni scolpiti in avorio, minutamente decorati, usati per fermare alla cintura borse e borsellini. Qui un ritorno a Giacometti s’impone. Durante la guerra Alberto visse e lavorò a Ginevra in una piccola stanza d’albergo. Alla vigilia del ritorno a Parigi, Albert Skira, suo amico, gli chiese quali disposizioni avesse preso per trasportare le sue sculture. “Ma le ho con me”, rispose. Le aveva dentro una scatola poco più grande di una scatola di fiammiferi da cucina. Per Della Bella il virtuosismo fu una pratica della quale non si stancò mai e che svolse con disinvoltura, questo spiega l’immenso successo che ottenne in vita. Per quanto concerne l’oggi, in un mondo in cui impera il grande formato, anzi la gigantografia e il nostro sguardo si è abituato a percorrere spazi sempre più grandi e sempre più in fretta, non è cosa semplice ritrovare un tempo “slow”, come si suol dire, che permette di prestare l’attenzione necessaria a osservare da vicino quello che riesce ancora a sorprenderci