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La scuola del Bornaccino. Un caso internazionale

a cura di Simonetta Nicolini

Casa del cinema Fulgor, piazzetta san Martino 28 aprile – 15 luglio 2018

 

L’arte infantile è un’invenzione degli adulti: la storia inizia con lo splendido Ritratto di giovanetto (1521-1523, Verona, Museo di Castelvecchio) di Giovan Francesco Caroto, in cui il figlio del pittore mostra uno scarabocchio. Il mito inizia a metà dell’Ottocento: nell’ Atelier dell’artista di Gustave Courbet un bambino disegna per terra, un altro osserva il pittore all’opera; nel 1853 Rodolphe Töpffer racconta con entusiasmo di monelli che disegnano sui muri e sui selciati (Reflexions et menus propos d’un peintre genevois). In Italia, la curiosità per l’arte dei più piccoli nasce, tra Emilia e Romagna, con Corrado Ricci che lascia la prima riflessione critica sul disegno dei fanciulli (L’arte dei bambini, 1887): «L’arte come arte è a loro sconosciuta; quindi disegnano meno male e s’accostano di più all’integrità vera delle cose». Le idee di Ricci influirono sull’educazione artistica, e, con Giuseppe Lombardo Radice, si diffusero dalla prima metà degli anni Venti del Novecento nella scuola elementare italiana.

Nelle scuole di campagna, dove i bambini avevano a disposizione il microcosmo racchiuso tra stalla e maggese e i maestri si muovevano con maggiore libertà pedagogica rispetto alle città, tra gli anni Venti e i Sessanta del Novecento fiorirono esperienze di arte infantile. Luigi Varoli, a Cotignola e Massa Lombarda, tra il 1922 e il 1923 insegnava la lavorazione spontanea dell’argilla e pubblicava un giornalino illustrato dai suoi allievi («E val»): il disegno era «libero giuoco a sfogo del bisogno di espressione» e la fantasia una salvezza per bambini dal destino altrimenti segnato da ignoranza e solitudine. La maestra Maria Maltoni di Dovadola, che aveva iniziato a Pieve Salutare, trasferita nella campagna toscana a San Gersolè, raccolse testi e disegni dei suoi allievi in quaderni che attirarono l’attenzione di Emilio Cecchi e Italo Calvino (I Diari di San Gersolè, 1949; I quaderni di San Gersolè, 1959). In quegli anni Cinquanta, poeti, cineasti e pittori restavano affascinati dall’arte infantile: anche Cesare Zavattini scrisse una prefazione all’antologia di poeti (Quasimodo, Montale, Sinisgalli, Ungaretti) raccolta dal maestro di montagna Gianni Faè e illustrata da incisioni su linoleum dei bambini (I bambini e i poeti, 1956). Federico Moroni a quel tempo insegnava al Bornaccino, ma aveva iniziato a Montetiffi la sua avventura dei suoi allievi con il disegno libero. Nella poverissima scuoletta rurale in mezzo alla campagna vicino a Santarcangelo, chiedeva di abbandonare la matita e la gomma ed esprimersi liberamente con penna, china e colori. La pittura infantile, ponte ideale tra il realismo magico degli anni Venti e il clima culturale del secondo dopoguerra, offriva al pittore-maestro una schietta e delicata declinazione della realtà circostante per una personale interpretazione del neorealismo incontrato con Renzo Vespignani. L’esperienza del Bornaccino attrasse l’attenzione del ‘viaggiatore’ Giudo Piovene ed ebbe un bellissimo epilogo nel volume Arte per nulla (prefazioni di Leonardo Sinisgalli e Lionello Fiumi, 1964), a metà tra il vademecum poetico e il testo didattico. Moroni vi rielaborava i gesti e i colloqui quotidiani – sulla natura, sugli animali, sulla vita di tutti i giorni e sugli oggetti desueti e abbandonati – che animavano il laboratorio-officina in cui lavorava con i suoi scolari: «Vivono nei campi assieme al sole, agli alberi, al grano, alla frutta, agli animali, all’odore dei polli e del rosmarino. Conoscono la fatica delle giornate lunghe e si riposano a scuola. Invece di zappare o di legare le canne col vimine alle viti, prendono la penna per fare delle aste, delle parole o dei numeri. Le loro mani lavorano nel campo. Ruvide d’esperienza, disegnano con la penna e l’inchiostro del calamaio […] la tua arte sia un’arte per nulla, inventata come un giocattolo, un’arte che trovi ammirazione e consenso nel tuo cortile, magari tra i barattoli vuoti, i gusci d’ovo e la cenere del bucato; accolta e festeggiata da un rocchetto di legno e una penna di pollo».

I stupefacenti disegni dei bambini di Moroni superavano per eleganza e finezza la qualità della produzione media dei fanciulli scaturita dalle esperienze all’avanguardia in quegli anni. Le voci infantili e la voce narrante del maestro si fondevano in un racconto magico. Ogni disegno era insieme il risultato della mano e dell’emozione del fanciullo e della visione poetica di Moroni. Di questo quotidiano sodalizio d’arte, vissuto tra natura e forme inventate seguendo l’istinto del gioco, il maestro Moroni dava la sua interpretazione didattica; ma è il pittore Moroni che si raccontava:

«[…] Prendi la penna dal tuo cassetto e l’inchiostro di china. Per disegnare con una linea, tieni la sfera nel palmo sinistro e, sentendone il peso, muovi la linea verso destra volendo che contenga il peso della sfera. Compiuto il tondo guardalo attentamente, non lo senti vuoto perché la linea non è inerte […]. La cosa che tu desideri disegnare va tenuta a lungo nelle mani, va posseduta a lungo, sì che perduri la sensazione della struttura e del peso. […] Sentila ad occhi chiusi, finché arrivi a immedesimarti, a possederla interiormente. Prendi la penna, e come per la sfera, senza pensare delinea decisamente la struttura essenziale, seguendo la sensazione che ancora permane nella tua mano […]»

Prima ancora che una scuola, è un’officina d’arte quella di Moroni: egli guida con discrezione le piccole mani degli allievi; lascia che il loro segno bellissimo fluisca per reinventare le forme degli animali e delle piante e si stampi anche nelle ceramiche – cotte insieme al pittore Lucio Bernardi – ideate per la stufa della nuova scuola progettata da Luigi Giordani.

È un incanto, un’utopia realizzata come per magia quella scuola oggi perduta: la rivedo con commozione nelle immagini girate da mio padre nel 1967…. Arte per nulla, appunto.