Seleziona una pagina

Luciano Baldacci. I segni e le cose

Testo a cura di Annamaria Bernucci

Ospiti al Museo della Città via L. Tonini 128 aprile – 15 luglio 2018

 

Dal suo singolare osservatorio, nell’assorbente silenzio di un borgo dalla luce antica, quasi un avamposto che preserva i particolarismi della provincia (come quella montefeltrana) Luciano Baldacci trae nutrimento per la sua esperienza artistica. Nel suo studio, gremito degli strumenti del mestiere che è quello antico dell’incisore, qua e là si identificano gli oggetti (foglie, sassi, bacche) che scivolano nelle sue rappresentazioni occupando preziosi primi piani. Baldacci nasce nel 1957 a Macerata Feltria, si è formato alla Scuola del Libro di Urbino che sin dalla sua nascita è stata punto di riferimento nazionale delle tecniche incisorie. L’abitudine minuziosa all’analisi, all’avventura nel cosmo della natura, trae ragione da quella scuola che è stata a lungo proiezione del magistero di Francesco Carnevali e di Leonardo Castellani

Inconsapevolmente ‘eremitico’ quel tanto che basta per dirigere le sue esplorazioni sulla poesia del reale e su un naturalismo di stampo ‘romantico’, Baldacci si schernisce del suo riserbo, come un moderno Iperiore alla ricerca della sua strada. Le ragioni del suo agire artistico le trae tutte dall’atto di disegnare.

I paesaggi che lo circondano e che disegna si inseguono a perdita d’occhio in corrugazioni e distese infiammate dal sole, che appariranno spogliate, ciclicamente, dai cambi e rigori delle stagioni. Si sveleranno come vedute d’insieme, dove un casolare diroccato o un elemento architettonico guadagneranno una fugace comprimarietà, tanto forte quanto è effimera l’esistenza delle cose. La sua è una predilezione equanime, va tanto alle nature morte quanto al paesaggio, trattati con la stessa modalità, cioè come un’indagine in grado di addentrarsi nei recessi più singolari e complessi del dato naturale.

Un incontro lirico, che i segni sottilissimi della matita o della punta d’acciaio tramutano sul supporto, carta o lastra, in una trama di insuperabile tecnica esecutiva. Il livello di tecnica raffredda l’immagine mentre l’invenzione scivola in un gusto rarefatto e vitreo capace di travalicare la soglia del figurativo. Il dosaggio del chiaroscuro crea ombre misuratissime, lo spazio diventa sospeso, mentale.

Accade che gli oggetti che emergono appaiano in una luce stupefatta, ma concreta.

Sono il frutto di una contemplazione prolungata, piccole cose, mai scelte per caso, ma scandite da un ordine di preferenza e di curiosità, un fiore, un animaletto dei campi, una pietra. Quella lenticolare acutezza dell’osservazione si mostra negli ‘oggetti di ferma’ che prendono consistenza davanti agli occhi.

Le cose non si avvertono per via di aggettivazioni ma perché si svelano nella loro naturalezza.

Si ritrovano in questi disegni i principi che hanno originato un genere – quello della natura morta – lo sguardo che si fa scientifico e che indugia sulla corporeità delle cose; ma anche la latenza o l’evidenza di un riferimento all’universo simbolico, alla consapevolezza delle fortune umane. L’aderenza al particolare si mostra un po’ come accadeva nel sentimento barocco. Un approccio che evoca la maniera di Jacopo Ligozzi o della miniaturista Giovanna Garzoni, raffinati descrittori del reale, o ancor più di Roelant Savery o Joris Hoefnaghel.

Davanti al paesaggio Luciano Baldacci si pone in ascolto, lo assorbe, lo decanta; ce lo restituisce trasformando i dati oggettivi in una sospensione spaziale e temporale, dove le forme si rivelano in una logica di composizione in cui nulla è dato dall’accidentalità; e i luoghi segreti, dalla bellezza discreta si aprono verso un tempo infinito, pur possedendo il dono della quotidianità.