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Adolfo De Carolis. L’Eco del Tempo dal Fondo di Montefiore dell’Aso

a cura di Tiziana Maffei

Castel Sismondo piazza Malatesta, 28 aprile – 15 luglio 2018

 

Può dirsi una poetica in rima baciata quella di Adolfo De Carolis, che sorregge un immaginario encomiastico e una possente intonazione aulica. Il suo amore per la simmetria e per il decoro, per un’epica mai disgiunta dal simbolo, fa convivere, sotto un armonico registro, le maiuscole torsioni dei corpi con le addomesticate fronde degli alberi, la lapidarietà delle parole con l’enfasi parlante dei fiori, le geometrie dell’architettura con le raffinate eloquenze del pensiero.

Ogni oggetto rappresentato, nei suoi disegni o nelle pitture, è portatore di un ruolo e anche i più semplici strumenti di lavoro divengono attributi di senso supremo. Non sembra esservi alcun quotidiano in quelle immagini, ma tutto si tramuta in allegoria, in metafora, in una rappresentazione, composta e insieme dinamica, piantata a terra eppure dotata di ali.

Vitalità ed energia non mancano di certo, ma le nodose masse muscolari, attribuite tanto al genere virile quanto a quello femminino, servono alle sue figure per sorreggere un peso puramente semantico, quasi fossero telamoni di un palazzo mentale o atlanti che hanno sulla schiena un mondo squisitamente simbolico. La grande retorica di Adolfo De Carolis sembra tuttavia non sincronizzarsi sul tempo che gli sarebbe appropriato, rispetto alla dimensione imperiale che intende cantare, arriva troppo tardi o troppo presto. Gli imperi ottocenteschi dell’Europa sono già esauriti e, in sostanza, l’artista non riuscirà ad interpretare nemmeno quello italiano, che deve ancora venire quando si compie la sua parabola decorativa.

Precocemente invece lo conobbe e lo intese Gabriele D’Annunzio, che lo volle a interprete visivo dei propri testi, delle proprie drammaturgie tradotte a stampa. Al piombo dei caratteri di quei libri De Carolis affiancò i suoi legni intagliati a sgorbia, che lo elessero a principe della xilografia, di una pratica arcaica ed eroica che, anche grazie al suo impulso, ebbe una nuova e inaspettata stagione di auge. Adolfo De Carolis va considerato tra i più grandi inventori di fregi parietali a cavallo tra i due secoli e i suoi apparati decorativi hanno posto il sigillo all’ultima epoca grandiosa di questa disciplina. Un canto del cigno, il suo, che intendeva tributare un esplicito omaggio alla Cappella Sistina, a quella mirabile sproporzione superomistica che ha segnato il Rinascimento italiano, volgendolo verso la Maniera. Di quel programma tardivo, davvero revival, il disegno costituisce la nervatura principale e il fondo di Montefiore dell’Aso ne è una straordinaria conferma. I tanti fogli accurati che studiano a sanguigna le pose dei corpi, accompagnano le idee alle rispettive traduzioni pittoriche; più rapidi e nervosi sono gli abbozzi a pennello, nei quali la cromia, trattenuta ai limiti del monocromo, li fa assomigliare a bassorilievi.

Vera sorpresa, al visitatore del museo piceno e della mostra riminese, sono i rapidi schizzi compositivi, attraverso i quali l’artista disponeva le scene e ripartiva le narrazioni in un groviglio di segni che restituiscono tutta la sua foga creativa, la più spontanea e sincera invenzione.